GATAL - Gruppo Attività Teatrali amatoriali Lombardia



Roberto Zago
  • Roberto Zago

    • Roberto Zago non ha mai voluto essere un maestro: proprio per questo ha insegnato e continua a insegnare così tanto. Lo ha fatto con l’umiltà di chi sa che l’arte non esiste senza la pazienza dell’artigianato e con la consapevolezza di chi non accetta che una qualsiasi forma d’arte venga svilita a strumento di intrattenimento. Neppure il teatro, che è spettacolo, gioco, messinscena? Neppure il teatro, esatto, perché il teatro è rito, parola efficace, rivelazione della verità oltre l’inganno dichiarato – e quindi finalmente decifrabile – della finzione. Recitare e far recitare era, per lui, dare consistenza al paradosso di Pessoa, alla celebre strofetta per cui il poeta, mentitore supremo, finisce per non distinguere tra il dolore che davvero prova e quello che invece dovrebbe limitarsi a simulare.


      Sul palcoscenico tutto è artefatto, tutto per questo è illuminante e sincero. È uno scambio misterioso, che Zago non aveva imparato dai libri, adeguandosi a una qualche teoria della rappresentazione, ma intuito fin da ragazzino, la prima volta che gli era capitato di fare teatro. Non aveva più smesso, mantenendosi fedele una vocazione tanto inspiegabile quanto travolgente. La sua esistenza è stata un continuo salire e scendere dalla scena, “una lunga domenica di sette giorni” straordinariamente simile a quella immaginata in È come se fosse una festa, la commedia scritta per celebrare il sacerdozio del figlio Paolo.


      Sì, perché Zago non è stato solamente capocomico instancabile e drammaturgo mirabilmente prolifico, fondatore con mons. Lorenzo Longoni del GATaL (Gruppo Attività teatrale amatoriale della Lombardia), una delle realtà per cui più si era speso nel corso degli anni. Nella sua esperienza scrivere e recitare, dirigere e studiare (autodidatta per necessità, ha sempre avuto un desiderio insaziabile di cultura) non erano in contrasto con la vita di famiglia, con l’amore tenerissimo per la moglie Angela e per i figli Paolo e Chiara. Una sintesi che sembrerebbe impossibile, ma che in lui si compiva grazie a una fede che non arretrava davanti a nulla.


      Molti anni fa, in una Milano divisa dalle ideologie ma pur sempre generosa di occasioni e di incontri, era rimasto affascinato dalla semplicità con cui Giovanni Testori, nel corso di un dibattito che suscitò molte polemiche, aveva dichiarato che “il teatro è il corpo di Cristo”. Anche per Zago era così. Pensava alla sua Compagnia dei Giovani come a una comunità di credenti, era persuaso che non ci fosse contraddizione tra l’adorare il mistero del Dio incarnato, crocifisso e risorto, e l’indossare la maschera di Arlecchino, questo povero guitto che, nel mettere a nudo le miserie dell’umanità, ci ricorda in modo imperioso e commovente quanto ognuno di noi abbia bisogno di essere salvato.


      Zago non amava i discorsi astratti, si trovava più a suo agio nella fatica silenziosa che il teatro esige: ore e ore di prove per ottenere un’impressione di realtà, magari ripetendo senza sosta lo stesso gesto fino a quando, come d’incanto, quella mossa appare naturale. Si sarebbe ribellato, a sentirsi chiamare maestro. Ma è stato il testimone di un cristianesimo orgoglioso e allegro, tenace anche nel dolore. Come il poeta di Pessoa, aveva scritto il Diario del suo male prima ancora di ammalarsi e poi, quando era stato chiamato, era andato in scena, quasi a ricordarci – una volta di più – quanto sia importante la parte che ciascuno si trova a recitare nel gran teatro del mondo.


      Alessandro Zaccuri